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Fratelli Bandiera

 

Riordinando la biblioteca, in uno scaffale, abbiamo ritrovato una tesina di un ex alunna di terza media. E’ la storia di una impresa fallita. Ma anche gli insuccessi possono causare eventi imprevedibili.

I FRATELLI BANDIERA E GLI ESPERIDI

 

La storia ha l’obbligo mettere in luce l’impegno, i sentimenti e le virtù di uomini anche poco conosciuti che agirono per il bene della società, affinché possa manifestarsi in tutti il desiderio di essere più giusti e la volontà di contribuire al bene comune, che è anche il bene di ciascuno.

L’argomento che mi accingo a trattare riguarda l‘avventura, diventata quasi un romanzo, dei Fratelli Bandiera e di altri loro valorosi compagni.

Dopo il fallimento dei moti carbonari, in Europa si costituirono alcune società, segrete e non, fra cui l’Esperia, fondata dai fratelli Bandiera. In seguito questa società divenne sezione della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini.

A Corfù, isola greca, si erano rifugiati, da diversi anni, alcuni uomini che aspiravano ardentemente alla libertà della loro patria: l’Italia. Presto furono raggiunti da altri patrioti allorquando si ebbe la notizia dello scoppio di un moto a Cosenza.

Arrivò per primo Emilio Bandiera, nel marzo del 1844. Era figlio di un ammiraglio italiano al servizio dell’Austria e, prima che venisse scoperta la società a cui apparteneva, era stato ufficiale a Venezia. Dopo aver trovato nella corrispondenza del suo ammiraglio un dispaccio che ordinava il suo arresto, fuggì. La madre lo raggiunse, supplicandolo di tornare e sperando nel perdono dell’Austria che voleva soffocare lo scandalo, ma Emilio, impassibile, fece tornare indietro la madre sconsolata.

In aprile giunse Attilio, ufficiale come il fratello, della marina austriaca, il quale, avendo disertato la sua nave “Bellona”, si era incontrato con alcuni amici. Anche il loro domestico, Paolo Mariani, li seguì. Fu la volta poi di Domenico Moro e di Nicola Ricciotti, proveniente quest’ultimo da Londra, con precisi compiti affidatigli dal Mazzini, che sconsigliava il progettato appoggio da dare agli insorti cosentini.

Fra gli esuli che si ritrovarono a Corfù ricordiamo ancora il Miller, il Tesei, il Savelli e Pietro Boccheciampe, il quale fu proprio lui a dare la notizia del moto nella città calabrese, sollecitando l’impresa, ma tradendo, poi, i compagni.

C’era anche Giuseppe Meluso, che, essendo originario della Calabria e conoscendo molto bene la sua terra, fece decidere ai Bandiera e ai compagni per uno sbarco presso la foce del Neto, e ciò dopo tante indecisioni, come attesta ad esempio una lettera di Attilto Bandiera al Mazzini, lettera che venne intercettata dal governo borbonico.

Gli Esperidi si imbarcarono la notte del 12 giugno 1844, come racconta lo stesso Attilio Bandiera e il Memoriale di Marsiglia, documento anonimo scritto con lo scopo di divulgare i particolari sulla spedizione per sensibilizzare l’opinione pubblica.

La notte seguente sbarcarono presso la foce del Neto. Appena scesi alcuni baciarono il suolo dicendo: “O sacra terra, tu ci hai dato la vita e noi la spenderemo per te! …” Incominciarono a marciare, e, all’alba, si fermarono in una casa di campagna, la masseria Poerio. Qui furono ospitati da Antonio Rivi, un uomo al quale venne chiarito lo scopo della spedizione. Egli fece però capire che l’azione sarebbe difficilmente riuscita, in quanto dappertutto regnava la miseria e l’ignoranza. Ma nessuno volle desistere e venne mandato il domestico del Rivi a Crotone per avere altre informazioni.

Nel frattempo ai contadini che si erano riuniti intorno alla compagnia furono distribuiti un proclama rivolto a tutti gli Italiani ed uno rivolto ai Calabresi. Nel primo si ricordava l’Italia antica, libera e sovrana e vi era l’invito a liberare la patria dallo straniero e costituire uno stato repubblicano; il secondo riguardava il giuramento, fatto dagli Esperidi, di contribuire all’indipendenza della nostra penisola.

Il domestico ritornò ben presto con una lettera indirizzata allo stesso Rivi e nella quale era scritto di far riparare i patrioti all’estero prima che fosse stato troppo tardi, poiché in quel momento un qualsiasi moto insurrezionale poteva costar loro la vita. A questo punto tutti si convinsero della gravità della situazione e decisero di salpare nuovamente; non trovando la barca rimandarono la partenza al giorno dopo. Ma la mattina si accorsero della mancanza del Boccheciampe e, sospettando il suo tradimento, andarono a nascondersi in un burrone, dopo aver lasciato all’amico della masseria Poerio un biglietto da consegnare al Boccheciampe nel caso il loro sospetto fosse risultato falso, biglietto che conteneva l’itinerario da percorrere per raggiungerli.

A notte ripresero la marcia, decisi ormai a far scoppiare il moto.

Il Boccheciampe li aveva effettivamente traditi, infatti, trovato un ragazzo, si era fatto accompagnare a Crotone e aveva detto tutto all’Ispettore di polizia Pagliarulo. Questi diede subito disposizioni alla gendarmeria, facendo spedire dei messi velocissimi ai paesi presilani nelle vicinanze dei quali sarebbe potuta passare la banda degli Esperidi.

I gendarmi si recarono dal Rivi, senza trovarlo, perché partito con la famiglia. Il domestico, rimasto solo nella masseria, negò di aver visto i rivoluzionari. Purtroppo egli perse la vita. Alcuni contadini indicarono poco dopo ai gendarmi la direzione che avevano preso gli Esperidi, pensando che essi fossero dei malviventi. Se ne pentirono amaramente.

Intanto i futuri eroi continuavano il loro faticoso cammino. Intorno alla mezzanotte del 18, due sezioni della Guardia urbana di Belvedere Spinello se ne stavano in attesa l’una nel passo di Santa Maria delle Grazie, l’altra in quello che porta in Sila e detto di Pietralonga. Gli Esperidi si diressero a quest’ultimo passo, attraversando il Neto da destra a sinistra nei pressi di Santa Severina. Ad un tratto sentirono degli spari e per un po’ si fermarono. Andarono poi più avanti, e presto furono sotto le pallottole degli assalitori. Risposero al fuoco, ma il Meluso consigliò la ritirata, per cui, più tardi, si ritrovarono di nuovo sulla riva destra del fiume.

Era ormai la mattina del fatidico 19 giugno 1844. Camminando per i campi incontrarono Giuseppe Cordova, un uomo che dovette ispirar loro fiducia perché gli consegnarono degli opuscoli politici ed il Proclama ai Calabresi. Il Cordova li accettò, ma poi consegnò tutto al suo padrone, Giuseppe Apa, che, da buon Borbonico, denunciò il fatto.


Dopo aver consumato un pasto frugale alla bettola della Stragola, i patrioti ripartirono e giunsero alla fontana che aveva lo stesso nome della bettola. Qui si rinfrescarono e, mentre stavano per proseguire, vennero fermati dalla Guardia urbana di San Giovanni in Fiore, guidata rispettivamente da Domenico Pizzi e Pietro Nicoletti.

In un ultimo scontro caddero il Miller ed il Tesei; Attillo riportò varie contusioni e lacerazioni; Emilio si slogò un braccio. Costretti ad arrendersi furono arrestati insieme ad altri nove compagni. Giuseppe Meluso riuscì a fuggire con il resto della banda, ma poco tempo dopo anche i suoi compagni di fuga vennero catturati e condotti a Catanzaro, mentre egli rimase latitante. Quelli che erano stati arrestati sul luogo dello scontro furono tenuti nelle carceri di San Giovanni in Fiore.

La mattina del 23 giugno i gendarmi tradussero tutti i prigionieri a Cosenza per il processo. Nonostante fossero stanchi e febbricitanti fecero il percorso in una sola tappa, legati strettamente per i polsi. Emilio, ad un certo punto, esausto ed arso dalla sete causata dalla febbre, tormentato dall’acuto dolore che gli procurava la slogatura, cadde al suolo chiedendo con un filo di voce un sorso d’acqua. Non gli venne data, anzi, fu costretto a rialzarsi e a proseguire il cammino. Giunti a Cosenza dove la notizia della fallita impresa era già arrivata, i prigionieri poterono constatare come molti avessero capito che essi non erano dei banditi, come aveva detto la polizia, ma dei patrioti. E mentre il comandante della scorta, attraversando la strada principale della città, gridava: “Viva il Re”, molti del popolo rispondevano: “Viva l’Italia” e “Viva la repubblica”.

Rinchiusi in uno stanzone del castello, i nostri eroi riuscirono finalmente a riposare. Ma ciò che alleviò le loro pene, più del riposo, fu il conforto di essere ancora insieme; insieme ad attendere serenamente la morte, affinché questa fosse di esempio alla gente. Poco dopo i carcerieri portarono loro parecchie ceste colme di ogni sorta di vivande mandate da alcuni che si definivano amici. I doni erano accompagnati da biglietti che contenevano poche parole di augurio e di incoraggiamento. Quelle parole furono molto gradite ai prigionieri, perché capirono che la loro azione era servita a qualche cosa. Qualcuno brindò. Improvvisamente la porta si aprì e comparve un vecchietto che fece eco al loro dire; i prigionieri voltarono il capo meravigliati e videro l’uomo, il quale non era altro che il medico delle prigioni. Egli, dopo aver medicato le ferite di molti, andò da Emilio per mettere a posto la slogatura e al quale disse di stare calmi perché fuori c’era chi li pensava. Allora il giovane gioì e non sentì alcun dolore durante l’operazione medica. Finito il suo compito, il vecchietto se ne andò dopo aver salutato.

L’indomani gli Esperidi incominciarono ad avere delle interrogazioni preliminari prima del processo. Un avvocato d’ufficio venne preposto alla Loro difesa; si chiamava Marini e diede un filo di speranza agli imputati, che, intanto, giorno per giorno, ricevevano lettere e regali. Emilio ebbe pure un biglietto scrittogli da Luisa Rivi, figlia dell’amico della masseria Poerio.

Il 24 luglio la Commissione militare emanò la sentenza: tutti condannati a morte per lesa maestà, A nove di essi la pena venne commutata in carcere; ebbero l’ergastolo, meno il Boccheciampe, condannato a soli cinque anni. Graziati dal Re nel 1846, i superstiti vennero condotti a Napoli e fatti partire per Marsiglia. Boccheciampe venne poi lasciato libero di andarsene.


Ferma rimase la sentenza del resto degli Esperidi che, il 25 luglio di quel 1844, scalzi, coperti d’una lunga tunica nera, col volto nascosto da un velo, uscirono da Cosenza insieme al plotone di esecuzione che li scortò fino al Vallone di Rovito. Durante il tragitto cantarono inni patriottici, e si sentiva: “Chi per la patria muor, vissuto è assai...!”. Arrivati al luogo vi trovarono numerose persone che avevano pensato anche di sollevarsi in rivolta, ma mancò l’iniziativa e il momento opportuno. Morirono al grido di “Viva ‘Italia”.

Otto mesi dopo venne catturato anche Giuseppe Meluso, il quale usufruì poi di una amnistia perché il Re, Federico II era ormai pressato dai vari avvenimenti politici. Aveva infatti anche concesso una costituzione.

Ma Giuseppe Meluso non amava nemmeno quella specie di Monarchia riformata che proteggeva i ricchi e i grandi usurpatori di terre, per cui egli fu poi a capo di una rivolta nella piazza di San Giovanni in Fiore. Purtroppo fu facile bersaglio della Guardia Nazionale che disperse il popolo, affamato e bramoso di terre.

Dopo questi fatti narrati si capisce come poco più di un secolo e mezzo fa la nobiltà e la borghesia terriera opprimevano crudelmente i ceti inferiori, i quali, a causa della Ioro ignoranza, erano incapaci di reagire.

Per quanto riguarda l’ambiente in cui si trovarono ad agire gli Esperidi, possiamo dire, che in esso si potevano intravedere tutte le condizioni storiche della “questione meridionale”, cioè del più grave problema che assillò I‘Italia all’indomani dell’unità e che permane purtroppo ancora oggi. Scarsissimi gli investimenti di denaro nella gestione delle proprietà terriere, rare le trasformazioni di latifondi in moderne aziede agrarie, miserabile la vita dei contadini.

Qua e là sorse qualche lanificio e qualche filanda, proprio come da noi, a San Pietro in Guarano. Ma i ceti inferiori, addirittura non conoscevano i propri diritti di uomini. Quando arrivarono a svegliarli dal loro stato i patrioti di Corfù, parole come unità e repubblica, non destarono alcun sentimento in essi. Anche quando arrivò Garibaldi i risultati furono modesti. Comunque, in quegli anni, le cose incominciarono a cambiare, ma la nostra amata Calabria rimase nella solita arretratezza.

Le salme dei fratelli Bandiera e di Domenico Moro rimasero per ventitré anni nella Chiesa di Sant'Agostino in Cosenza. Dopo l'unità d'Italia un decreto del 1866 stabilì che le loro ossa fossero trasferite da Cosenza a Venezia, che aveva dato i natali agli eroi. Pur a malincuore i Cosentini onorarono il trasferimento con opere letterarie, cerimonie e cortei trionfali descritti ampiamente in testi che si possono scaricare liberamente da internet e di cui vi fornisco i link:

Dopo aver fatto sosta a San Fili, il convoglio raggiunse Paola verso le 10.00 di mattina, seguendo il percorso stradale di allora. Qui vi furono altre cerimonie. Ad aspettare i resti degli eroi c'era la nave Europa, che lasciò Paola "all'Ave Maria", cioè mezzora dopo il tramonto.

Presso la Biblioteca Nazionale di Cosenza sono conservate anche le lettere della madre dei Fratelli Bandiera, Baronessa Anna Maria Marsich e di Guglielmo Tocci, Consigliere Provinciale e Regio Delegato di allora del Comune di Cosenza.


Bibliografia:

Salvatore Meluso, Il volto del coraggio, Nuova Esperia – Cosenza – Tipografia Barbieri, 1967

Salvatore Meluso, La spedizione in Calabria dei Fratelli Bandiera. Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino Editore, 2001.

Giuseppe Bandi, I Mille, da Genova a Capua, Firenze, 1903 

Franco Di Tondo, La storia e i suoi problemi , Loescher, 1975

Riccardo Pierantoni, Storia dei fratelli Bandiera e loro compagni in Calabria. Milano, Cogliati, 1909.

Carlo Alberto Radaelli; Storia dello assedio di Venezia negli anni 1848 e 1849. Napoli, 1865.

Mauro Stramacci; La vera storia dei fratelli Bandiera. Roma, Mediterranee, 1993.

  1. Conflenti, I fratelli Bandiera e i massacri di Cosenza del 1844, Cosenza, Tipografia Bruzia, 1862.

 

Sitografia

"Raccolta degli scritti che si riferiscono al trasporto delle ossa dei Fratelli Bandiera e di Domenico Moro da Cosenza a Venezia" pubblicata dal Municipio di Venezia nel 1867

Onori funebri resi alle ceneri di Attilio ed Emilio Bandiera e Domenico Moro, Cosenza, Trajano Ippolito Editore,1867


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